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martedì 30 novembre 2010

La Doppia Immagine


A novembre compio trent'anni.

Sei ancora piccola, hai solo tre anni.

Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,

turbinano nella pioggia d'inverno,

cadono e s'acquattano. Ed io ricordo

i tre autunni che non hai passato qui.

Hanno detto che mai ti avrei riavuto.

Ti dico quel che mai saprai davvero:

le congetture mediche

che spiegano il cervello non saranno mai reali

quanto queste foglie abbattute.



Io, che ho tentato due volte d'ammazzarmi,

ti avevo dato un nomignolo

appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;

poi una febbre t'è rantolata in gola

ed io mi muovevo come una pantomima

attorno al tuo capino.

Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,

dicevano, era mia. Facevano gli spioni

come streghe verdi versando nella testa la rovina

come un rubinetto rotto;

come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,

un vecchio debito che dovevo accollarmi.



La morte era più semplice di quanto credessi.

Il giorno che la vita t'ha restituito sana e salva

Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.

Ho finto d'esser morta

finché uomini bianchi m'hanno spompato il veleno,

m'hanno messo senza braccia e slavata

nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.

Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell'hotel.

Oggi le foglie gialle

sono stremate. Mi chiedi dove vanno.

Ti dico che l'oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.



Oggi, piccina mia, Gioia,

ama il tuo essere dove adesso vive.

Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c'è,

allora perché t'ho fatto crescere altrove.

Tu non riconoscevi la mia voce

quando tornavo a casa a trovarti.

Tutti i superlativi

di alberi di Natale e vischi del futuro

non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.

Nel tempo che non amai me stessa

venni in visita a te su marciapiedi spalati,

mi tenevi per un guanto.

Dopo questo fu di nuovo neve.



2.



Mi hanno spedito lettere con tue notizie

e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.

Quando cominciai a sopportarmi

andai a stare con la mamma. Troppo tardi,

troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.

Non me ne sono andata.

Ma un ritratto mi son fatto.



Dal manicomio nel parziale ritorno

venni alla casa di mia madre a Gloucester.

Ed ecco come venni ad abbrancarla,

ed ecco come venni a perderla.

Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.

Non l'hai mai potuto.

Ma un ritratto lei m'ha fatto.



Ho vissuto da ospite rabbioso,

parzialmente rammendata, bimba esorbitante.

Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.

Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.

Sorridi come tua madre, disse il capocciante.

Non mi pareva interessante.

Ma un ritratto mi son fatto.



C'era una chiesa là dove sono cresciuta,

là in bianchi armadi fummo inchiavati

come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.

Mio padre passava col piattino per la questua.

Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.

E non fui propriamente perdonata.

Ma un ritratto m'hanno fatto.



3.



Quell'estate gettiti irrigui s'inarcavano

a pioggia sull'erba rivierasca.

Parlavamo di siccità

mentre il prato corroso dal salmastro

nuovamente raddolciva.

Per passare il tempo falciavo l'erba

e la mattina mi facevo fare il ritratto,

fissando il sorriso nella formalità.

Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,

e una cartolina col Motif number one

come se fosse normale

essere madre ed essersene andata.



Hanno appeso il ritratto nella fredda luce

del lato nord, che bene mi si addice,

per farmi stare bene.

Soltanto mia madre s'ammalò.

Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,

come se la morte si riflettesse,

come se il mio morire l'avesse corrosa.

Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.

Il primo settembre mi guardò in faccia

e mi disse che le avevo attaccato il cancro.

Le mozzarono le colline dolci

e ancora non avevo la risposta.



4.



Quell'inverno lei tornò

parziale ritorno

alla sterile suite

di medici, nauseante

crociera di raggi X,

l'aritmetica delle cellule impazzita.

Parziale intervento,

braccio grasso, prognosi infausta,

li ho sentiti dire.



Durante le burrasche marine

lei si fece fare il ritratto.

Caverna di uno specchio,

appeso al lato sud;

una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.

E tu mi assomigliavi sconosciuto

viso mio, tu lo indossavi.

Dopotutto eri mia.



Ho svernato a Boston,

sposa senza figli,

niente di dolce da spartire,

con le streghe a fianco.

Ho perduto la tua infanzia,

tentato un altro suicidio,

subito il secondo hotel dei sigilli.

M'hai fatto un Pesce d'Aprile.

Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.



5.



Per l'ultima volta m'hanno dimesso

il primo maggio;

laureata in casi mentali,

con l'assenso dell'analista,

un libro finito di versi,

la macchina da scrivere e le borse.



Quell'estate imparai a rimettere vita

nelle mie sette stanze,

andavo su barchette a cigno, al mercato,

rispondevo al telefono,

da brava moglie offrivo da bere,

facevo l'amore fra crinoline e abbronzature d'agosto.



E tu venivi ogni weekend. No, mento.

Venivi di rado. Fingevo che c'eri

bimba farfalla, porcellina

guance di gelatina,

tre anni di disobbedienza,

ma splendida sconosciuta.



E dovevo imparare

perché volevo morire invece che amare,

perché mi faceva male la tua innocenza,

e perché accumulo le colpe

come un giovane internista

rivela i sintomi e la certa evidenza.



Quel giorno d'ottobre che andammo a Gloucester

le colline rosse mi ricordavano

la pelliccia di volpe rossa sdrucita

in cui giocavo da bambina,

immobile come un orso, una tenda,

una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.



Oltrepassammo il vivaio dei pesci,

il baracchino dove vendono l'esca,

Pigeon Cove, lo Yacht Club,

Squall Hill, verso la casa in attesa

ancora, la casa sul mare.

E due ritratti sono appesi su opposte pareti.



6.



Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,

risalta nell'ombra il mio viso ossuto.

Mentre posavo lì cosa avevo sognato

tutta me negli occhi in attesa,

il giovane viso, la zona del sorriso,

trappola per volpi.



Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,

le guance vizze come orchidee appassite;

mio specchio beffardo, mio amore spodestato,

mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto

quella testa di morte impietrita

che avevo sopraffatto.



L'artista ci fissò alla svolta;

si sorrideva inquadrate nelle tele

prima di scegliere strade da prima separate.

La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.

Mi decompongo sulla parete

come Dorian Grey.



E questa fu caverna di uno specchio,

una donna sdoppiata che si fissa

come se il tempo l'avesse impietrita

- due signore in terra d'ombra assise -

Hai dato un bacio alla nonna,

e lei ha pianto.



7.



Non potevo tenerti

tranne il weekend. Ogni volta venivi

stringendo il disegnino del coniglio

che ti avevo spedito. Per l'ultima volta

disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.

La prima volta hai chiesto il mio nome.

Ora rimani per sempre. Dimenticherò

che sbalzavamo cozzandoci come marionette

appese a fili. Non era l'amore

ridursi al weekend.

Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,

traballando sul marciapiede piangi e chiami.

Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,

che altrove, nei dintorni di Boston, muore.



Ricordo che ti chiamammo Gioia

per poterti chiamare gioia.

Arrivasti come un ospite imbarazzato

allora, tutta fasciata umida meraviglia

alla mia mammella pesante.

Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,

solo una femmina, un topino lattoso di bimba,

da sempre amata, da sempre esuberante

nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.

Io, che non fui mai certa d'esser femmina,

avevo bisogno di un'altra vita,

di un'altra immagine per ricordarmi.

E fu questa la mia più grave colpa;

tu non potevi curarla o lenirla.

Ti ho fatta per trovarmi.

Anna Sexton

giovedì 11 novembre 2010

Poesie più o Meno D'Amore

5

cento larve
hanno insegnato alle mie viscere a torcersi
cento settimane or sono

e adesso tu vieni con bacche
nei capelli
e aspetti il mio
applauso.

6

mi domando
perchè
abbiamo dormito
insieme

quelle notti
e cosa abbiamo perduto.

9

Qui con il lago per divertirci
sarebbe splendido
se potessi trovare il modo di pagare l'affitto
quando torno in città-

Qui con un ruscello e tutto quel jazz.
penso a te
Che non ami me
che non amo te
E non è freddo bambino?

Così freddo che potremmo farci gelare la birra

Questo non è il posto per pensare alla birra.
Tutto verde.

10

Canzone alle 24

il tempo
ha mangiato la mia innocenza come un pistacchio
l'amore se n'è andato con la mia fiducia

o nobile primoamore
tutto verde limo
cosa hai fatto della mia risata
cosa hai fatto dei soldi che ti davo al venerdi
e dei buchi nelle mie scarpe?

12

Nel caso tu mi pianti ti pianto
subito, bambola
so a cosa stai giocando.

Nel caso tu mi pianti ho già pensato
che ci sono bocche più belle della tua
corpi più estasianti
posti più attraenti.

Nel caso tu mi pianti non mi sarà d'aiuto.

13

Ma bambino
se capiterai quassù
con quel
sorriso
fresco-di-campagne
e quelle mani
accidenti a te

non credere
che questa volta non ti chieda
dov'è il ballerino
con il quale
hai trascorsa
la settimana
in città.

Diane Di Prima

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mercoledì 10 novembre 2010

Lettera Rivoluzionaria # 1


Ho appena capito che il premio sono io
non ho altro
denaro per riscatto, nient'altro da spezzare o scambiare che la vita
il mio spirito dosato, frammentario, sparso
sul tavolo della roulette, ripago quanto posso
nient'altro da ficcare sotto il naso del maitre de jeu
nulla da spingere fuori dalla finestra, niente bandiare bianche
questa carne è tutto ciò che ho da offrire, fare il gioco con
questa testa qui e ora, e quello che vien dietro, la mia mossa
mentre strisciamo sopra questo bordo, proseguendo sempre
(si spera) fra le righe.

venerdì 16 luglio 2010

La Vera Prigione


Ken Saro Wiwa (1941-1995), nato a Bori in Nigeria, laureato in inglese a Ibadam, ha insegnato nelle università di Nsukka e Lagos. Scrittore molto prolifico, ha pubblicato oltre ventisei libri di vario genere letterario (romanzi, racconti, poesie, libri per l’infanzia) tra cui Sozaboy, il suo romanzo di maggior successo, basato sulle memorie di un ragazzo-soldato sullo sfondo della guerra civile nigeriana. Collaboratore di programmi radiofonici e televisivi era molto popolare nel suo paese. Ambientalista e attivista per la difesa dei diritti umani, nel 1993 è diventato presidente del MOSOP (Movimento per la salvaguardia degli Ogoni), che si batte per questa martoriata etnia e contro i disastri ecologici causati dalle compagnie petrolifere. Accusato d’omicidio insieme ad altri otto compagni e condannato a morte da un tribunale speciale, è stato impiccato, nonostante le pressioni internazionali, il 10 novembre del 1995. Nel 1997 è stato candidato al premio Nobel per la pace.


Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un'intera generazione
E' il poliziotto che corre all'impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L'inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina
E' questo
E' questo
E' questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione.

lunedì 18 gennaio 2010

Scritta in una notte buia



Nella nudità della notte
mentre assaporiamo la nostra vita
e il nostro sangue ci riscalda,
mentre l'acqua (piano piano)si ritira nel suo sonno perpetuo
e il treno corre verso il suo oscuro viaggio.
Noi baciamo la notte nella sua pura sensualità
e mentre la strada rapisce le nostre anime
un muto canto di libertà viaggia nell'aria
fugge lontano abbandonandoci qua...
in questa gabbia
intrappolando il dolore dentro di noi.

Tutto cessa
E ancora una volta questo muto canto di libertà.


Simone Evangelista, coautore di questa poesia, è, non solo un grande amico, ma, senza voler esagerare un grande poeta. Ad ogni modo questa poesia che scrivemmo insieme non poco tempo fà (entrò, poi, a far parte di una raccolta, scritta con un nostro comune amico: Antonio De Stefano, dal titolo "Forse Poeti", che custodì le poesie di quel periodo. Malgrado i nostri propositi, questo volume finì dimenticato (come altri progetti non solo miei) in un polveroso scaffale della mia libreria (naturalmente non cercammo mai di farlo pubblicare, è forse fu un bene!).
Ad ogni modo, un paio di giorni fà l'ho ritrovato ed ho deciso di pubblicare questa poesia in particolare, perchè carica di ricordi meravigliosi.
Vi Auguro Una Buona Lettura!

Vittorio Palmieri

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